Latifondo. Termine composto dal latino latus («grande») e fundus («podere, fondo»), indica una grande estensione di terra, per lo più appartenente a un unico proprietario, incolta oppure caratterizzata da un’agricoltura estensiva e povera (spesso praticata in alternanza con la pastorizia transumante), e dall’assenza di investimenti fondiari (abitazioni, vie di comunicazione, colture arboree e impianti per l’irrigazione). Vi lavorano generalmente braccianti o affittuari che non vi risiedono stabilmente, ma vi si trasferiscono da un centro abitato (non sempre vicino) per il tempo necessario allo svolgimento delle attività agricole.
Quello del latifondo è un fenomeno che interessa storicamente buona parte dell’Italia. Formatosi nell’antica Roma (latifundia) a seguito delle conquiste ottenute dai romani dopo le guerre puniche e all’acquisizione di vasti territori all’ager publicus (suddivisi in grandi aziende agricole gestite con manodopera servile), il latifondo già ai suoi esordi fu considerato responsabile di gran parte dei mali dell’agricoltura della Penisola, e originò pertanto vari tentativi atti a limitare il grande possesso terriero. Nonostante le riforme agrarie prodotte in tal senso dai Gracchi, da Silla e da Cesare, la presenza del latifondo si accrebbe comunque, soprattutto in età imperiale e nel Medioevo. In generale si può dire che sul latifondo romano s’innestò la struttura economica feudale che, a sua volta, generò il latifondo moderno. Il fenomeno fu inoltre aggravato dal parallelo formarsi dei grossi patrimoni fondiari della Chiesa (mantenutisi tali fino al XVIII secolo). Sia il dominio arabo nell’Italia meridionale, sia diversi sovrani – Federico II di Svevia, Federico III d’Aragona, Carlo I e II d’Angiò, Carlo V ecc. – si adoperarono per limitare l’incremento del latifondo; nel XVIII secolo numerose furono le proposte finalizzate a frammentare le grandi proprietà e a moltiplicare quelle medie e piccole.
Il latifondo, che in Italia settentrionale aveva ricevuto un fiero colpo da parte della civiltà comunale, sarebbe rimasto invece ampiamente diffuso in Sicilia, in Sardegna, in parte della Basilicata, in Calabria e nella Maremma laziale fino ai primi anni dopo la Seconda guerra mondiale, frenando lo sviluppo dell’agricoltura e imponendo ai contadini una vita di miseria. Ciò fino a quando, dopo la caduta del regime fascista, la riforma fondiaria non si impose come uno dei principali strumenti atti a risolvere il problema.