PAROLE DELLA LETTERATURA

classicismo e romanticismo, confronti polemici in Italia


Classicismo e Romanticismo, confronti polemici in Italia. Le polemiche tra romantici e classicisti, cominciate nel 1816 per sollecitazione di un articolo di Madame de Staël, Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni, pubblicato nel gennaio di quell’anno nella «Biblioteca italiana», divamparono subito vivacemente, e durarono per circa un cinquantennio. La discussione prese avvio dall’auspicio formulato dalla Staël, che gli italiani si aprissero alla contemporanea letteratura europea e ne traessero impulso per rinnovare la loro, nella quale dominavano ormai l’erudizione antiquaria e il vacuo formalismo. A questo giudizio, che suscitò diffuse reazioni negative, replicarono tra gli altri Pietro Giordani, del quale apparve una Lettera ai compilatori della «Biblioteca italiana» su quella medesima rivista nell’aprile 1816, e Carlo Giuseppe Londonio, autore di una Risposta ai due discorsi di Madama di Staël (1816). Entrambi, pur difendendo nel suo complesso la contemporanea letteratura italiana, ne ammettevano alcuni difetti, e riconoscevano l’opportunità di un suo rinnovamento, ma nell’ambito della tradizione nazionale: Giordani, convinto che nelle scienze «si dà progresso infinito» ma che nelle arti vi è una perfezione oltre la quale non si può andare, e identificando tale perfezione nei classici greci, latini e italiani, esortava i connazionali a volgersi all’attento studio di quelli; Londonio dichiarava assurda la pretesa che a creare un teatro italiano potesse giovare l’esempio di modelli stranieri. Intensa fu d’altra parte l’offensiva romantica, affidata soprattutto agli opuscoli Intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani, di Ludovico di Breme, Avventure letterarie di un giorno o consigli di un galantuomo a vari scrittori, di Pietro Borsieri, e Sul «Cacciatore feroce» e sulla «Eleonora» di Goffredo Augusto Bürger. Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo, di Giovanni Berchet. Comune ai tre scritti è la valutazione della coeva cultura letteraria italiana: impari alla sua tradizione e, legata a vecchi schemi retorici, estranea al moderno spirito europeo; comune la proposta di un rinnovamento fondato sulla connessione della letteratura al modo di intendere e di sentire contemporaneo, che comportava, tra l’altro, l’abbandono dell’apparato mitologico-poetico, avvertito come morto residuo del passato, e dei vincoli artificiosi delle unità drammatiche di luogo e di tempo. Fortemente accentuata era in Borsieri e Berchet l’attenzione al carattere e alla funzione sociale e nazionale della letteratura: il primo lamentava la mancanza in Italia di romanzo, teatro comico, buoni giornali; il secondo insisteva sull’indole «popolare» di ogni vera poesia, cioè sulla sua capacità di esprimere le aspirazioni e di muovere i sentimenti del «popolo» di una nazione. Di Breme sottolineava invece il momento «patetico» della poesia, da lui inteso – come chiarirà meglio nel 1818 recensendo sullo «Spettatore» la traduzione italiana del Giaurro, novella poetica di Byron – non come tendenza al malinconico, ma come attitudine a esplorare ciò che vi è «di più riposto e di più profondo nell’animo» dell’uomo (vero centro della moderna poesia), come scoperta della vastità del sentimento e della «conformità naturale dell’ideale col vero», come prodotto di autentica individuale ispirazione, svincolata da ogni regola esterna e rispettosa solo delle «leggi di analogia» (leggi non razionali ma intuitive) che governano «l’universo poetico». Londonio prese in ampio esame le tesi dei romantici nell’opuscolo Cenni critici sulla poesia romantica, del 1817, cui aggiunse nel 1818 un’Appendice: riconosceva che la poesia romantica potesse avere le «sue particolari bellezze», ma proclamava il sistema classico «più perfetto, più ragionato, più essenziale», fondato sulle «leggi invariabili» del bello, e anche più conforme all’indole italiana; affermava la necessità per lo scrittore, accanto all’«attitudine» e all’«ispirazione», dello «studio diretto da norme sicure e invariabili»; negava che il poeta dovesse conformarsi «al gusto e ai pregiudizi» del popolo, stimando che questo «in fatto di arti e di lettere» non fosse giudice competente; indicava nel Romanticismo, o almeno nella forma che esso assumeva in alcuni suoi fautori italiani, «una tendenza antiliberale e antifilosofica», manifesta nella riproposizione di una tematica medievale, che rischiava di «rimettere in onore i pregiudizi e le superstizioni».

Dal saggio di Di Breme sul Giaurro trasse impulso il Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica composto nel 1818 da Leopardi, che già nel 1816 era intervenuto con una lettera alla «Biblioteca italiana» (da questa non pubblicata) sull’articolo della Staël. La posizione leopardiana, molto personale e complessa, si muoveva tra il rifiuto dellʼimitazione e delle regole pedantesche e la ripugnanza per lʼesteriore «singolarità» romantica, tra l’inclinazione a una poesia sentimentale e il rimpianto per la condizione spontanea della primitiva poesia greca, tra la coscienza del carattere razionale della moderna civiltà e il ripudio dell’asservimento dell’arte, che è illusione e diletto, alla filosofia e all’utilità.

Mentre la polemica si inaspriva e si disperdeva in minori scritti satirici (un posto a sé hanno, per superiorità di gusto, le poesie dialettali che tra il 1817 e il 1820 indirizzò contro i classicisti Carlo Porta), Ermes Visconti tentò con le Idee elementari sulla poesia romantica, pubblicate sul «Conciliatore» nel 1818, di ridurre a un ordine sistematico le dottrine delle due scuole contrapposte. Il procedere alquanto scolastico ed estrinseco dell’operazione classificatoria di Visconti e l’ineleganza della sua prosa offrirono il destro a confutazioni e ironie da parte dei classicisti. Basti qui ricordare la Critica del sermone di Giovanni Torti «Sulla poesia» e delle «Idee elementari sulla poesia romantica» di Ermes Visconti, di Paride Zajotti (pubblicata sulla «Biblioteca italiana» nel 1819), che sosteneva, tra l’altro, la continuità diretta della tradizione poetica italiana da quella classica, e perciò il carattere intrinseco alla tradizione italiana della mitologia, e la necessità del rispetto delle unità teatrali. Tali unità furono, sempre nel 1819, oggetto di due articoli, contrapposti nelle tesi, di Visconti e del classicista Pietro Molossi, e nel 1820 della Lettera a Chauvet di Manzoni, il quale nella Lettera sul romanticismo (stesa nel 1823 e indirizzata al marchese Cesare d’Azeglio), rilevata l’arbitrarietà delle regole classicistiche e ripudiato l’uso della mitologia come «idolatria», sinteticamente affermava la sua idea dell’arte, conforme a quelle di altri romantici lombardi: «la poesia e la letteratura in genere deve proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto, l’interessante per mezzo». Le polemiche, dopo qualche anno di attenuazione anche per la dispersione poliziesca del gruppo del «Conciliatore», si riaccesero nel 1825 in seguito alla pubblicazione del Sermone sulla mitologia di Vincenzo Monti: tra gli interventi più importanti che esso suscitò vi furono quello di Giuseppe Montani (l’articolo La mitologia, 1825) e quelli di Niccolò Tommaseo (l’articolo Della verità poetica e il discorso Della mitologia, 1826). Entrambi gli scrittori, che già in precedenza, con articoli stampati nel 1825 su «L’Antologia», avevano dato un giudizio positivo dell’opera tragica e poetica di Manzoni, respingevano come anacronistica la proposta montiana della conservazione della mitologia nella letteratura, per la quale indicavano la via di un moderato realismo in funzione dellʼeducazione sociale, morale e religiosa (motivo quest’ultimo particolarmente accentuato da Tommaseo).

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