povertà


Povertà. Il termine indica la condizione di scarsa disponibilità di beni materiali, sia individuale sia collettiva. Già nel corso del Medioevo il termine povero e i suoi equivalenti servirono ad esprimere realtà differenti. Nel periodo di tempo compreso tra l’età carolingia e il XIV secolo, il sostantivo pauper («povero») fu usato, successivamente, in opposizione a potens («potente»), miles («guerriero»), civis («cittadino»), dives («ricco»). Esso poté quindi designare, in rapporto a potens e a miles, la condizione del debole, non necessariamente miserabile, ma comunque bisognoso di protezione, e nella società urbana, in rapporto a civis e a dives, uno stato di inferiorità giuridica e pecuniaria.

Se per definire il concetto di povertà usiamo criteri di portata assai ampia, quali sono appunto l’inferiorità giuridica, l’incapacità di acquistare o conservare gli strumenti necessari per il proprio lavoro, e in generale la penuria di beni, esso diventa comprensivo di categorie molto varie, che vanno dal contadino che non possedeva né bestiame né attrezzi, al cavaliere che non era in grado di procurarsi armi e cavallo, allo studente indebitato, costretto a copiare manoscritti, al salariato, all’accattone. La precarietà delle condizioni generali di vita alimentò costantemente nel mondo medievale questa massa di indigenti, la cui consistenza cresceva nei momenti di più grave congiuntura (crisi economiche, carestie, epidemie).

Restringendo e precisando il concetto di povertà e ponendoci dal punto di vista economico-sociale, possiamo invece riferirci alla fascia costituita, nella società urbana, dai mendicanti e da coloro che, anche saltuariamente, hanno necessità di elemosine. Si tratta di una presenza di grande rilievo in ogni città, ma di cui è difficile stabilire la consistenza quantitativa. Le cifre, sempre molto elevate, citate da alcuni cronisti dall’epoca medievale in avanti, sono oggi giudicate non del tutto attendibili dagli storici. È comunque interessante ricordare che, secondo Villani, a Firenze intorno al 1330 era di 17 000 il numero di coloro che vivevano di elemosine, a cui si devono aggiungere altri 4000 poveri con caratteristiche particolari (ricoverati negli ospedali, detenuti nelle carceri, frati mendicanti): circa il 20 per cento della popolazione cittadina. La mendicità crebbe nella seconda metà del XIV secolo e assunse il carattere di un fenomeno sociale determinato dal meccanismo stesso dello sviluppo economico: vi si riducevano gruppi emarginati di vario tipo (soldati sbandati, ladri recidivi, prostitute, storpi, ciechi) e, in larga misura, contadini spinti dalla durezza delle condizioni di vita o dall’indebitamento a cercare i mezzi di sussistenza in città. I poveri delle comunità urbane furono meno integrati nell’organismo sociale e meno tollerati di quanto non lo fossero i poveri delle comunità rurali. Nel corso del Trecento si generalizzarono nei loro confronti il disprezzo e la paura. La nomenclatura stessa rivela che il concetto di povertà fu associato a quello di pericolosità sociale: mendicante divenne sinonimo di vagabondo, di ozioso e di potenziale criminale.

D’altro canto, però, la povertà, fin dal Medioevo, non viene considerata soltanto nei suoi risvolti negativi. Se liberamente praticata e accettata, è intesa come un valore di grande importanza nella religione cristiana e una condizione indispensabile per la perfetta imitazione di Cristo: paladini della povertà furono molti santi, come san Francesco, il «poverello» di Assisi, e ancora oggi molti ordini religiosi mantengono il voto di povertà.

Con la rivoluzione industriale e l’avvento del capitalismo avvengono due fenomeni importanti: prima di tutto, la povertà diventa la condizione di un’intera e specifica classe sociale, il proletariato industriale, costretto dalle dinamiche della concorrenza capitalistica a vivere a livello di pura sussistenza; in secondo luogo, si modifica l’atteggiamento nei confronti dei poveri, perché la povertà viene vista quasi esclusivamente come un riflesso e una conseguenza dell’incapacità personale, o addirittura come una colpa. Nell’Ottocento un intervento statale nei confronti dei poveri si ha quindi solitamente in senso repressivo, per punire gli “oziosi”, e non in senso assistenziale: ciò avviene secondo i princìpi dell’ideologia liberale, che non intende turbare il gioco delle forze del mercato del lavoro. Per attenuare tale ostilità delle istituzioni statali, il miglioramento delle condizioni sociali del proletariato diventa allora uno degli obiettivi principali dei sindacati (e prima di questi delle società di mutua assistenza e delle casse di mutuo soccorso). Successivamente, con il peso crescente assunto dai partiti e dai sindacati operai nella società borghese, nei Paesi capitalistici avanzati la povertà di massa si attenua, e parallelamente si moltiplicano gli interventi statali per la riduzione della povertà con politiche di welfare, ossia di intervento sociale mirante ad assicurare a tutti alcuni servizi sociali essenziali e un minimo salario garantito. La povertà subisce così una nuova metamorfosi: non è più una colpa, ma una piaga sociale da eliminare. Nonostante gli intenti dichiarati dai governi degli Stati economicamente più avanzati, però, il divario tra poveri e ricchi, e tra Paesi poveri e Paesi ricchi, continua a crescere anziché diminuire, soprattutto nei periodi di crisi economica, durante i quali i ricchi sembrano diventare più ricchi e i poveri più poveri.

Vedi anche ricchezza.

 

 

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