Malattia. La malattia, affezione che colpisce il corpo e lo spirito e può interessare sia gli uomini sia gli animali, è un tema che attraversa tutta la letteratura, in particolare nell’Otto e nel Novecento. Viene affrontato dagli scrittori sotto due diverse angolature: come malattia collettiva (per la quale vedi epidemia e peste), e come malattia individuale (fisica o psicologica). Sotto questo secondo aspetto il tema compare già nell’Iliade, con la figura di Filottete, afflitto da una maleodorante piaga che induce i suoi compagni ad abbandonarlo su un’isola deserta: nel mondo degli eroi, per i quali la forza fisica e la salute del corpo sono fondamentali, la malattia è inaccettabile. In genere, infatti, i personaggi del mito non si ammalano: muoiono in combattimento o suicidi o per intervento divino.
Con l’avvento del cristianesimo la malattia è presentata come la conseguenza del peccato e la punizione di una colpa commessa, o come una prova mandata da Dio per saggiare la fede dell’uomo (esemplare il caso di Giobbe che, nell’omonimo libro della Bibbia, sopporta eroicamente le sofferenze e le umiliazioni inflittegli da Dio proprio a tale scopo).
Nei poemi cavallereschi i paladini non affrontano vere e proprie malattie, bensì ferite e morti in combattimento; in qualche caso il loro decesso ha cause decisamente comiche (Morgante muore per il morso di un piccolo granchio, Margutte per le troppe risate). Si manifestano, però, le prime malattie mentali, come la follia di Orlando, provocata dalla gelosia e quindi etichettabile come mal d’amore. Nella commedia del Cinque e Seicento la malattia è un pretesto che arricchisce l’intreccio e permette di portare sulle scene figure di dottori e medicastri: come nel Malato immaginario di Molière o in alcune commedie di Goldoni (La finta ammalata, Gli innamorati).
Ma bisogna arrivare al Romanticismo perché si faccia strada la concezione della malattia come strumento di nobilitazione; è questa l’epoca in cui si diffondono massime come «l’uomo è nato per soffrire», mentre la tisi diventa la malattia per eccellenza dell’Ottocento letterario: proposta più come un’infermità dell’anima che come un’affezione del corpo, viene depurata dei suoi aspetti più sgradevoli e limitata alla languida debolezza, al pallore e ai tremori che suscita. Nella letteratura italiana, esempi di personaggi affetti da tubercolosi e insieme sofferenti di mal d’amore, si trovano in Fede e bellezza di Tommaseo, nell’opera lirica Traviata di Giuseppe Verdi, in alcuni poeti crepuscolari (Gozzano, Corazzini, Govoni), nel racconto Sette piani di Dino Buzzati. Spesso le ammalate sono personaggi femminili, come nel racconto Fosca di Tarchetti, in Malombra di Fogazzaro, in molte pagine di d’Annunzio (Il piacere, L’innocente, Il trionfo della morte). Procedendo nel Novecento, ai mali fisici (che abbondano accanto a quelli nervosi, per esempio, nella Coscienza di Zeno di Svevo) si affianca sempre più spesso il “mal di vivere” che caratterizza il secolo, quella depressione che non ha cura e che assume forme e nomi diversi: “follia” in Pirandello, “nausea” in Sartre, “male oscuro” in Gadda e Berto.
Vedi anche, per temi affini, medicina.